Il cinema dell'emigrazione

Categoria: Saggistica Pubblicato: Sabato, 20 Febbraio 2016 Scritto da Valeria Consoli

Malgrado lo scorso Festival del Cinema di Venezia abbia vantato  autori e titoli di tutto rispetto, specie nell’ambito della filmografia anglosassone  (per tutti basti citare  Stephen Frears di ‘The Queen’, valso  la migliore interpretazione femminile a una strepitosa Elen Mirren nel ruolo della Regina Elisabetta e l’attesissimo ‘Il flauto magico’ di Ken Branagh ), un elogio  particolare, sia da parte del pubblico che della critica è stato riservato al lavoro di due registi italiani: a quel ’ Nuovo mondo’ di  Emanuele Crialese,  a cui è andato un più che meritato Leone d’Argento, quindi a ‘Lettere dal Sahara’, l’ultimo film del regista e documentarista   Vittorio de Seta, da poco scomparso ed il cui film ha voluto rappresentare sostanzialmente un omaggio.

 

Entrambi di origine siciliana,  anche se molto lontani l’uno dall’altro per ragioni anagrafiche e soprattutto per le loro modalità stilistiche e narrative,  pervengono tuttavia al medesimo assunto:quella terra, che circa cent’anni fa era stata teatro di massiccci esodi migratori verso le Americhe, quella del Nord in particolare, oggi – ad un secolo di distanza – è divenuta essa  stessa luogo d’approdo, sia pure il più delle volte come semplice punto di transito verso mete ben più lontane , da parte di tutti quei diseredati, profughi politici e non, che rischiano persino la loro vita sulle famigerate ‘carrette del mare’....nè più nè meno come cent’anni fa succedeva a noi!

Articolato  essenzialmente in tre parti, il plot si snoda tra la Sicilia, dove ha inizio la vicenda,  interpretata quasi tutta da attori non professionisti e che si esprimono il più delle volte solo usando una stretta parlata dialettale; indi la navigazione nell’Oceano Atlantico, che inizia con l’attesa degli emigranti ammassati sul molo -  le cui riprese sono state effettuate nel porto di Buenos Aires -  e infine l’arrivo a Ellis Island.

Nel corso di un’intervista rilasciata  a Cineuropa, Crialese accenna alle suggestioni derivategli dalla visita al Museo dell’Emigrazione di Ellis Island :

‘Il film è nato da una visita al Museo di Ellis Island. Gli sguardi degli immigrati puntavano storditi verso l’obiettivo, come se fossero appena sbarcati sulla luna. Questo film non è stata una scelta politica o sociologica. E’ scaturito solo da quegli sguardi.’ (...) La mia guida  in quest’avventura sono state le parole di carta, le lettere spedite ai parenti rimasti a casa. Venivano dettate perche la maggior parte degli emigrati erano analfabeti. Io ne ho lette a centinaia, cercando di immedesimarmi e di ritrovare l’identità di quegli uomini d’altri tempi, che trovavano sempre il lato positivo delle cose, nonostante la miseria più nera.’

Abbandonato il realismo, che contrassegnava Respiro (anche questo ambientato in Sicilia), se per certe immagini di chiara matrice surrealista  il richiamo a Federico Fellini è inevitabile, quasi automatico – e il pensiero va in questo caso al famoso ‘bagno nel latte’, metafora dell’abbondanza ma anche del ‘biancore’ di quella  terra  per certi aspetti ancora ‘vergine’ e tutta da scoprire – è il regista stesso ad indicare in ‘America, America. Il ribelle del’Anatolia ‘ di Elia Kazan un po’ il modello ispiratore di Nuovo mondo, fatto  salvo l’afflato trionfalistico, che ne Il ribelle caratterizza un po’ tutta quanta la vicenda, dall’inizio alla fine.

Saga familiare di impronta picaresca  ambientata fra i monti dell’Anatolia , cui il titolo fa riferimento, dove il giovane Stavros ( che è anche uno degli ‘eteronimi’ – per usare una  terminologìa cara a  Fernando Pessoa – del protagonista di uno dei romanzi più noti del filone balcanico picaresco: :quel ‘Kyra Kyralina’ di Panait Istrati ,autore all’epoca diffuso in tutta l’area balcanico ottomana e quindi di sicuro noto al regista) in lotta con la famiglia e con le autorità turche, che agli inizi del Novecento vessavano  le minoranze greche e armene  vive nel mito dell’America, da lui vista come la ‘terra promessa’ in cui  trovare il riscatto dalla miseria e dall’oppressione.

Partendo dall’assunto machiavellico che ‘il fine giustifica i mezzi’, Stavros arriva sia pure suo malgrado ad uccidere l’uomo, che gli ha rubato il carico di tappeti con cui era diretto a Istambul,  città dove si fidanza ufficialmente, salvo ad abbandonarla di lì a poco, con una ragazza ricca ma brutta; la moglie di un facoltoso commerciante, che nel frattempo si era innamorata di lui, in procinto di imbarcarsi anche lei per gli Stati Uniti, gli procura un biglietto per la nave: il sacrificio  di Hohannes, un  amico gravemente malato  che, non potendo avere l’accesso nel ’nuovo mondo’, è costretto a suicidarsi, consente a Stavros,  quando gli hanno già ritirato il passaporto in seguito a una rissa, di mettere finalmente piede sul suolo agognato di quella che diverrà la sua nuova patria.

Scenario dell’emigrazione interna al nostro Paese, da un Sud ancora povero e arretrato (siamo nel 1955) verso un Nord industrializzato e più evoluto, è quello rappresentato magistralmente da Luchino Visconti, coadiuvato da tutto un team di validissimi sceneggiatori in  ‘Rocco e i suoi fratelli’, uscito nelle sale cinematografiche nel 1960.

Ispirato ad uno dei racconti tratti da ‘ Il ponte della Ghisolfa’ di Giovanni Testori, il film si impernia interamente sull’arrivo a Milano dalla nativa Lucania  di Rosaria e dei suoi quattro figli - Simone, Rocco, Ciro e Bruno -  che si ricongiunge  in questo modo al primogenito Vincenzo, prossimo alle nozze, dopo la morte del marito avvenuta nel paese natìo.

Il ‘topos’ del funerale – uno dei più  diffusi nell’immaginario mediterraneo specie nell’incipit della  narrazione filmica (da Angheliki Antoniou di ‘Notti perse al gioco’ al più recente Pedro Almodovar di ‘Volver’ ed a Katherine McOgilvy de ‘L’iguana’ , tratto dall’omonimo libro diAnnamaria Ortese  e le cui locations sono state girate in Sicilia ) – cede   il posto alla rappresentazione della Stazione Centrale di Milano, quasi a voler contrappuntare  la diversità fra questi due universi.

In realtà la storia dei cinque fratelli lucani immigrati a Milano,  solo in apparenza  intessuta  dei canoni e degli stilemi del ‘Neorealismo, offre  a Luchino Visconti l’opportunità di una sua personale rilettura del  soggetto,  almeno secondo quanto sostiene  Jurij M.Lotman,[xi] in chiave prettamente dostoevjskiana: a discapito della scansione originaria  in cinque storie – quelle di Rocco e i suoi fratelli appunto – Vincenzo – Simone – Rocco – Ciro – Luca- la vicenda risulta  infatti essenzialmente imperniata sul ‘triangolo’ (fatto di amore e di odio) tra Simone e Rocco, entrambi innamorati della stessa donna, Nadia – nome non a caso di palese ascendenza russa – una prostituta  (e non per mera combinazione):  ruolo quest’ultimo, che la accomuna verosimilmente sia  a Grusenka dei ‘Fratelli Karamazov’  che a Sonia di ’Delitto e castigo’ ; mentre il personaggio di Simone non solo farebbe riferimento alla figura di Dimitri Karamazov  ma facendo in questo modo da contraltare a Rocco – sorta di ‘angelo caduto’ votato al sacrificio (non solo di sè stesso ma anche altrui!) -  adombrererebbe quella del giovane Aliosa.

La morale, che per certi aspetti  rimanda all’assunto pasoliniano del primato della civiltà contadina di stampo patriarcale sul ‘vizio’della città – in questo caso una Milano dal grigiore quasi spettrale –  si riesce a cogliere nella soluzione quasi catartica della vicenda, che raggiunge il suo climax nella morte di Nadia per mano di Simone: un barlume di speranza  giunge ancora una volta da Rocco, che esorta Luca, il  più piccolo dei fratelli, a  ritornare un giorno - almeno lui – nel Sud, in quel loro ‘paese degli arcobaleni’.

Ispirandosi ad un’espressione, (Lamerica), che nel suo romanzo La Storia Elsa Morante faceva pronunciare  al piccolo Useppe, il regista di origine calabrese Gianni Amelio già autore applauditissimo de ‘Il ladro di bambini’, nel 1994 esce nelle sale cinematografiche con questo film, peraltro candidato al Leone d’oro al Festival di Venezia di quell’anno.

Ispirato a un evento concernente le cronache dell’epoca, quello sbarco biblico di centinaia di Albanesi sulle coste pugliesi dopo il crollo del  regime ferale di Enver Hoxa, il film dà modo anche in questo caso di poter cogliere  nella trama una  lettura a due livelli: da un lato, la storia di due trafficanti italiani, truffaldini e privi di scrupoli, che all’indomani della caduta del  regime comunista  in Albania e del conseguente aprirsi del paese verso un Occidente, percepito tuttavia solo nei suoi aspetti più illusori ed ingannevoli, cercano di impiantare in quella nazione una fabbrica di calzature con  la complicità delle autorità locali: dall’altro lo sbarco in Italia di quanti fra gli  Albanesi, attratti dal miraggio di una vita migliore, agli inizi degli Anni Novanta si erano avventurati in mare alla volta del nostro Paese, che assurge in questo modo ad immagine speculare di quell’America, che agli inizi del Novecento aveva rappresentato la ‘terra promessa’ per milioni di nostri connazionali.

 

Anche in questo caso il titolo del film si rifà alle ‘Lettere dal Sahara’, [xiv]raccolta di saggi scritti daAlberto Moravia a testimonianza del suo amore per il deserto ed in generale per tutto il ‘Continente nero’ , per il quale aveva sempre nutrito quell’ inestinguibile ‘mal d’Africa’, di cui prima di lui aveva raccontato  Karen Blixen, la scrittrice danese autrice de ‘La mia Africa’.

In reltà il deserto del Sahara rappresenta solo il trait d’union attraverso il quale il giovane protagonista della vicenda, Assane, dal suo villaggio natale in Senegal  riesce a sbarcare in Sicilia, in una di quelle famigerate ‘carrette del mare’ di cui le nostre cronache attuali sono piene, spesso trascinadosi un  triste fardello di morti annegati e dispersi.

L’Odissea di Assane segue l’iter tradizionale dell’emigrazione risalendo la penisola – dalla Campania alla Toscana, dove vive una cugina del giovane (ormai naturalizzata italiana e poco incline all’osservanza delle tradizioni islamiche) indi a Torino, dove sembra  essersi ambientato anche grazie all’ospitalità e al’amicizia della sua giovane insegnante di Italiano

Ma una sera una vile aggressione da parte di un branco di teppisti lo induce ad abbandonare tutto e tutti per tornare in Senegal.

Qui una sorta di ‘guru’ del villaggio, che era stato il suo antico maestro, lo esorta però a tornare sui suoi passi e a percorrere ancora una volta quel tragitto che lo aveva portato sull’altra sponda del Mediterraneo: la possibilità di ricominciare una vita altrove esiste ancora.

Anche questo film si può suddividere in due parti: quella ambientata in Italia e che, malgrado le lodevoli ambizioni del regista, risente  di certe ingenuità – il mito roussoiano del ‘buon selvaggio’ per  cui tutto il bene sta da una parte e tutto il male dall’altra – e quella (purtroppo soltanto nelle ultima sequenze) ambientata nel Senegal ed in  cui De Seta, in realtà noto  più come autore di reportages e di documentari che come regista di film a trama, rivela tutta  la sua maestria:[xvi] specie nel restituirci le atmosfere esotiche  dell’arrivo del protagonista all’aeroporto di Dakar, in mezzo a un’umanità brulicante e (malgrado tutto!) festosa, fra colori, ritmi e musiche, che la quieta e ‘compassata’ Europa gli ha fatto quasi dimenticare.

Da non dimenticare, viceversa, il messaggio che entrambi questi due film presentati a Venezia sembrano volerci lanciare: che un tempo, neanche tanto lontano,  gli stranieri, i diversi, gli altri, eravamo proprio noi...NON DIMENTICHIAMOCENE!

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